Italia21

giovedì 23 agosto 2012

Deserto rosso




Capitava, fin da bambina, di imbattersi  nelle ciminiere di Taranto, sempre di passaggio sulla strada che conduce all’estremo Sud, per me la meta era la Sicilia, patria di sangue paterno.
L’odore acre con venature sulfuree di chissà quanti e quali metalli, colpiva le narici di bimba e tutto veniva sistematicamente chiuso
( bocchettoni dell’aria ed aperture varie all’esterno,  per non parlare dei finestrini) . In quest’assetto da “blindo” , chiusa in una scatola, gli occhi insistevano prepotentemente sulle ciminiere “ la mamma non ci dotava di apposita benda perché non immaginava quanto grande potesse essere l’offesa per lo sguardo..”
Certo di fumo ne producevano ma l’animo di bimba comprendeva che quell’eccesso si sostanza bianco-grigiastra non  aveva niente da spartire con la nebbia agli irti colli..quella che piovigginando sale… e nulla poteva apparire più assurdo di quello strano colore rossastro che avevano i gard-rail e le zone prossime  ai camini sputa veleni.
Penso che il mio amore per il cielo terso,  per le bianche nuvole del sereno ed i grigi della tempesta, per l’aria da respirare a pieni polmoni quasi come creatura del cielo, nasca anche  da lì, da quell’impatto con la natura devastata dalle ciminiere che vedevo svettare al posto di alberi e dall’assenza, in quell’addensamento di veleni, di una qualsiasi forma di vita alata.
Da sempre, diciamo dai quattro anni in su , mi son chiesta come fosse la gente di Taranto e li immaginavo diversi, con nasi proboscitati  per meglio filtrare le impurità ed occhi incavati perennemente arrossati. Quando la compagna di scuola raccontava del padre che lavorava all’Italsider ( l’attuale Ilva ) e che ogni mattina alle quattro partiva per raggiungere il posto di lavoro, superato lo stupore iniziale che quei luoghi potessero essere compatibili con forme di vita ( addirittura umana )io mi chiedevo come avrebbe fatto a sopravvivere in quell’inferno e provavo un emozione di pena per lui, la mia amica, la sua famiglia.
Negli anni, passando dalla statale, ho provato le medesime emozioni, intatte, anche perché nulla era cambiato , anzi  si aveva una qualche idea , da profani della materia, che il processo si fosse amplificato per un potenziamento della produzione di veleni senza che alcuno avesse mai preso a cuore una situazione così drammatica.
Saliva il senso di sgomento e di pena per la popolazione, per gli operai…
Un giorno mi capitò di andare al Tamburi e di camminare attraverso le sue strade , ne raccolsi una sensazione di sfacelo, povera Taranto, lì appariva , malgrado l’amenità del suo ponte girevole, i lustri  dei suoi musei e l’offerta commerciale dei suoi negozi,  come una vecchia signora alla quale avessero imposto un belletto (ciprie, terre) di colore rosso.
E’ questa la sensazione che ne trassi,  strade, palazzi, dai cornicioni alle grondaie, insegne e lampioni , ogni cosa  ricoperta dell’insana polvere rossa….
Tutti noi sapevamo, si è messo un coperchio su una bomba ad orologeria. Per anni abbiamo finto che la situazione fosse sotto controllo, molti ( di quelli che contano)  ne avevano piena consapevolezza.
Ora che  la situazione è esplosa  ringraziamo per  il coraggio di chi ha deciso che fosse giunto il momento di non accettare più mediazioni e compromessi .
Ci siamo fermati ad un passo dalla distruzione totale che avrebbe reso quella zona un deserto rosso.
Le morti, lo stato di degrado ambientale dei luoghi, sono chiaramente un punto di non ritorno, allora viviamo nella consapevolezza che Taranto potrà  rappresentare un emblema del sacrificio estremo di una terra , di una città, affinché  tutto questo possa MAI PIÙ ACCADERE.

Brindisi, 22/08/2012                        
                                                    Iacopina Mariolo