Capitava, fin da bambina, di imbattersi nelle ciminiere di Taranto, sempre di
passaggio sulla strada che conduce all’estremo Sud, per me la meta era la Sicilia , patria di sangue
paterno.
L’odore acre con venature sulfuree di chissà
quanti e quali metalli, colpiva le narici di bimba e tutto veniva
sistematicamente chiuso
( bocchettoni dell’aria ed aperture varie
all’esterno, per non parlare dei
finestrini) . In quest’assetto da “blindo” , chiusa in una scatola, gli occhi insistevano prepotentemente sulle ciminiere “ la mamma non ci dotava di apposita benda
perché non immaginava quanto grande potesse essere l’offesa per lo sguardo..”
Certo di fumo ne producevano ma l’animo di
bimba comprendeva che quell’eccesso si sostanza bianco-grigiastra non aveva niente da spartire con la nebbia agli irti colli..quella che piovigginando sale… e nulla poteva apparire
più assurdo di quello strano colore rossastro che avevano i gard-rail e le zone
prossime ai camini sputa veleni.
Penso che il mio amore per il cielo
terso, per le bianche nuvole del sereno
ed i grigi della tempesta, per l’aria da respirare a pieni polmoni quasi come
creatura del cielo, nasca anche da lì,
da quell’impatto con la natura devastata dalle ciminiere che vedevo svettare al
posto di alberi e dall’assenza, in quell’addensamento di veleni, di una
qualsiasi forma di vita alata.
Da sempre, diciamo dai quattro anni in su , mi
son chiesta come fosse la gente di Taranto e li immaginavo diversi, con nasi proboscitati per meglio filtrare le impurità ed occhi
incavati perennemente arrossati. Quando la compagna di scuola raccontava del
padre che lavorava all’Italsider ( l’attuale Ilva ) e che ogni mattina alle
quattro partiva per raggiungere il posto di lavoro, superato lo stupore
iniziale che quei luoghi potessero essere compatibili con forme di vita (
addirittura umana )io mi chiedevo come avrebbe fatto a sopravvivere in
quell’inferno e provavo un emozione di pena per lui, la mia amica, la sua
famiglia.
Negli anni, passando dalla statale, ho provato
le medesime emozioni, intatte, anche perché nulla era cambiato , anzi si aveva una qualche idea , da profani della
materia, che il processo si fosse amplificato per un potenziamento della
produzione di veleni senza che alcuno avesse mai preso a cuore una situazione
così drammatica.
Un giorno mi capitò di andare al Tamburi e di camminare attraverso le sue
strade , ne raccolsi una sensazione di sfacelo, povera Taranto, lì appariva ,
malgrado l’amenità del suo ponte girevole, i lustri dei suoi musei e l’offerta commerciale dei
suoi negozi, come una vecchia signora
alla quale avessero imposto un belletto (ciprie, terre) di colore rosso.
E’ questa la sensazione che ne trassi, strade, palazzi, dai cornicioni alle
grondaie, insegne e lampioni , ogni cosa ricoperta dell’insana polvere rossa….
Tutti noi sapevamo, si è messo un coperchio su
una bomba ad orologeria. Per anni abbiamo finto che la situazione fosse sotto
controllo, molti ( di quelli che contano) ne avevano piena consapevolezza.
Ora che la situazione è esplosa ringraziamo per il coraggio di chi ha deciso che fosse giunto
il momento di non accettare più mediazioni e compromessi .
Ci siamo fermati ad un passo dalla distruzione
totale che avrebbe reso quella zona un deserto
rosso.
Le morti, lo stato di degrado ambientale dei
luoghi, sono chiaramente un punto di non ritorno, allora viviamo nella
consapevolezza che Taranto potrà
rappresentare un emblema del sacrificio estremo di una terra , di una
città, affinché tutto questo possa MAI PIÙ ACCADERE.
Brindisi,
22/08/2012
Iacopina Mariolo
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